Tra filosofia, biologia e intelligenza artificiale
Nel 1944, Ernst Cassirer pubblica An Essay on Man, un testo che diventerà un punto di riferimento per l’antropologia filosofica del Novecento. Lì definisce l’uomo come animal symbolicum: non più soltanto un animale razionale, come voleva Aristotele, ma un essere che vive immerso in un mondo di simboli.
Il linguaggio, il mito, l’arte, la religione, la scienza — per Cassirer — non sono semplici strumenti per interpretare la realtà, ma la realtà stessa in cui l’uomo abita. Non esiste un “mondo naturale” immediato per l’essere umano: ogni esperienza è mediata da segni e significati.
In questo senso, Cassirer ribalta la prospettiva evoluzionista ingenua secondo cui l’uomo sarebbe “solo un animale più intelligente”. No: la differenza non è quantitativa, ma qualitativa. L’uomo non pensa meglio degli animali, pensa diversamente. Il suo pensiero è simbolico: cioè capace di astrarre, rappresentare, creare mondi di senso che non hanno un corrispettivo diretto nella realtà empirica.
Oggi, a quasi un secolo di distanza, la biologia e le neuroscienze sembrano confermare — pur con linguaggio diverso — l’intuizione di Cassirer.
Un recente studio, From Basic Affordances to Symbolic Thought (arXiv, 2025), propone un modello evolutivo in cui la capacità simbolica emerge come un “salto computazionale” rispetto al pensiero pratico degli animali. Mentre le altre specie reagiscono agli “affordances” dell’ambiente — cioè alle possibilità d’azione immediata che le cose offrono — l’essere umano può separare l’azione dal significato, creare rappresentazioni astratte, stabilire corrispondenze tra realtà e concetti.
È questo meccanismo che rende possibile il linguaggio, la matematica, la musica, la religione.
Gli animali comunicano, ma non “parlano” in senso simbolico; costruiscono nidi o tane, ma non “architetture”; rispondono agli stimoli, ma non costruiscono teorie. Il loro pensiero è funzionale alla sopravvivenza; quello umano è capace di chiedersi perché esiste qualcosa invece di nulla.
La neuroscienza cognitiva chiama questo processo “binding simbolico”, ovvero la capacità di legare tra loro concetti e relazioni indipendenti dal contesto immediato. È la funzione che ci permette, ad esempio, di capire che “la giustizia” non è una cosa, ma un’idea che attraversa mille contesti.
Il cervello umano ha sviluppato circuiti dedicati a questo tipo di astrazione — in particolare nelle aree prefrontali e temporali — che nei primati non mostrano la stessa connettività funzionale (Nature Reviews Neuroscience, 2023).
Un ulteriore contributo proviene dall’articolo The Biological Basis of the Symbolic (Wiley, 2024), che sottolinea come la nascita del linguaggio simbolico sia avvenuta in stretta relazione con la vita sociale.
Il cervello umano si è evoluto non tanto per manipolare oggetti, ma per manipolare significati condivisi. La cooperazione, l’insegnamento e la trasmissione culturale hanno reso necessario un sistema di rappresentazioni astratte che potessero sopravvivere al singolo individuo.
In questo senso, il simbolo è ciò che permette la continuità del sapere umano. Non è solo un segno arbitrario, ma una struttura biologicamente fondata, che prolunga l’azione dell’uomo nel tempo e nello spazio.
Cassirer aveva intuito anche questo: l’uomo è “animale simbolico” non perché crea simboli per sé, ma perché solo attraverso di essi può costruire un mondo comune. È il simbolo che rende possibile la cultura.
C’è però una domanda scomoda, che oggi non possiamo evitare. Se il pensiero simbolico è ciò che ci distingue dagli animali, come dobbiamo interpretare l’avvento delle intelligenze artificiali che, sempre più, sembrano “comprendere” e manipolare simboli?
L’articolo Whither symbols in the era of advanced neural networks? (arXiv, 2025) invita a riconsiderare il confine stesso tra pensiero simbolico e computazione. Le reti neurali di nuova generazione, come i modelli linguistici, non ragionano per istinto né per scopi biologici, ma sono in grado di produrre e interpretare simboli — parole, immagini, relazioni — in modo sorprendentemente coerente.
Se la capacità simbolica è definita solo come manipolazione di segni, allora anche un’IA potrebbe essere detta “animale simbolico”. Ma se invece il simbolico implica intenzionalità, coscienza e apertura al senso, allora resta ancora una frontiera tutta umana.
E forse è proprio questa la lezione più profonda di Cassirer: l’uomo non è simbolico perché “usa simboli”, ma perché abita nel significato. Vive dentro le proprie rappresentazioni, e attraverso esse costruisce un mondo in cui può domandare, credere, amare e soffrire.
Nessun algoritmo, per ora, ha mai sofferto per la mancanza di senso.
In definitiva, il pensiero simbolico rappresenta l’anello che unisce biologia, cultura e spiritualità. È ciò che ci permette di trasformare un suono in una parola, una parola in un’idea, un’idea in un valore.
L'uomo è capace di domandarsi quale sia il significato del mondo, di immaginare ciò che non esiste, di ricordare ciò che non c’è più e di desiderare ciò che non sarà mai.
Forse questa è la vera differenza: non l’intelligenza in sé, ma la possibilità di attribuire senso all’esistenza.
E in questo, Cassirer aveva ragione: finché continueremo a cercare il significato delle cose, a costruire simboli e a interrogarci sul loro valore, resteremo irriducibilmente umani.